11 dicembre 2014, mattina. 99 mesi esatti dal giorno in cui io e Simona ci siamo messi insieme. Vado dal mio amico Alessandro per mettere a posto i capelli che nei mesi della mia permanenza a Doha hanno assunto la forma di una scarola riccia post atomica.
Si dice che i grandi tagli nella propria esistenza si producano con un bel “zac” delle forbici del parrucchiere. Non a caso molte donne, e qualche uomo più illuminato, cambiano acconciatura alla vigilia o subito dopo un momento cruciale della propria vita. Ma io non ero andato lì con quella intenzione: non avevo una nuova vita da ricominciare, nessun cuore infranto da rimediare con un’acconciatura degna di Uomo vogue (nella foto che segue delle possibilità tar cui scegliere guardando ai miei antenati nel corso della storia).

Eppure su quella sedia imbottita, abbigliato con una poco virile mantellina annodata alla gola per raccogliere i capelli superflui e con il cervello ammorbidito da uno shampoo caldo, stava per arrivare la notizia che avrebbe terremotato la mia vecchia vita.
Arriva un messaggio via WhatsApp, il messaggero moderno di sventure o di fortune. Simona mi dice che deve parlarmi, ha ritirato le analisi del sangue. Il cuore comincia a pulsare come se a prenderne il controllo fosse John “Bonzo” Bonham (per chi è a digiuno di musica: è il batterista rock più grande di tutti i tempi).
I dubbi dei giorni scorsi che avevano fatto apparire lo spettro della gravidanza si sciolgono in una certezza: Simona è incinta. Ha ritirato gli esami del sangue. La BetaHCG (sembra roba da Interstellar => vedi foto, mentre è “semplicemente” il valore della gonadotropina corionica umana, un ormone che viene prodotto dal trofoblasto - primo abbozzo di quella che poi diventerà la placenta - all’incirca sette giorni dopo la fecondazione e proprio per questo viene utilizzato come segnale inequivocabile di una gravidanza in atto) è talmente alta che potrebbe esserci una squadra di calcio dentro di lei.

La mia reazione è paragonabile a uno sprofondamento in uno spazio siderale. Mi sento come Sandra Bullock in Gravity (Clooney è troppo figo per avvicinarmi a lui anche solo come fantasia). Improvvisamente i suoni si attutiscono, i colori perdono consistenza, la mia testa diventa una buccia di pensieri molli come i budini di gelatina delle feste dei bambini americani.
Il primo su cui scaricare il fardello della notizia è il mio amico Gianvincenzo. Leggo nei suoi occhi lo smarrimento. Non sa se farmi gli auguri o tacere in un mortificato silenzio di cordoglio. Sa bene che non sono esattamente un fan della vita su questa terra e ho sempre considerato la procreazione alla stregua di una proliferazione batterica pronta ad annientare il pianeta su cui viviamo.

Tornando verso casa in auto si affolla nella mia mente una serie di domande senza senso. Solo uno spermatozoo su milioni ce la fa a raggiungere l’ovulo e a fecondarlo. Chi era questo temerario? Come si chiamava questo eroe (mi piace pensare che abbia un numero più che un nome. Per me è S27)? Dove si è allenato per superare gli altri (la velocità media è di 2-3 millimetri al minuto, allora il buon S27 deve essere arrivato almeno a 5mm al minuto, più veloce di certi tizi che incontro allo stadio quando vado a correre alla mattina).
E domanda delle domande: quando è avvenuto questo fatale incontro con un Ovulo - che ho sempre immaginato come il “mostro” di fine livello nei videogame degli anni 80/90 - dopo aver superato l’ambiente ostile e pieno di pericoli della Vagina (neanche fosse Mordor, la valle oscura de Il signore degli anelli)?