lunedì 9 marzo 2015


Perché "Non chiamarmi papà"

Ho sempre avuto una decisa avversione per i “titoli familiari”: nonno, suocero, zio e perfino mamma e papà. Io ho un desiderio: che mia figlia non mi chiami mai papà!
È una mia idiosincrasia (apro una parentesi, e ve ne sarete accorti, su questa parola bellissima. Tutti noi sappiamo, o faccio finta di sapere, che significa “profonda avversione” o antipatia verso qualcosa o qualcuno. Però la sua origine greca rivela un senso più profondo: idios  sta per “proprio” e di synkrasis  per “carattere” o “inclinazione spirituale”. Come a dire che certe repulsioni e certe ostilità che sembrano immotivate, sono spesso solo da attribuire al nostro carattere, cioè a “come siamo fatti”). 
“Nonno e nonna” sono titoli che per me sanno immediatamente di stantio. Di qualcosa che improvvisamente si ricopre di ragnatele, di passo un po’ infermo, di racconti che nessuno vuole ascoltare, di pantofole che strusciano sul pavimento, di profumo stantio, di vestiti desueti e cadenti, di borbottii lamentosi, di posti lasciati vacanti in autobus per farti sedere.
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Certo lo so benissimo che sono immagini stereotipate di nonni da film o di nonni ormai decaduti, ma le parole portano con loro sempre un’immagine che si forma nella  nostra mente. Per questo quando una donna o un uomo ancora giovani o giovanili vengono investiti da questo terribile peso (diventare nonni) li sento improvvisamente invecchiati, come povere vittime di un incantesimo di una strega rompicoglioni. Per questo il giorno in cui qualcuno mi chiamerà nonno, sentirò calare su di me il sipario della vita.
“Zio e zia” mi procurano una vertigine di cattivo sapore ancora più intenso. Nel corso del tempo ho provato ad eliminare quasi del tutto questa abitudine malsana di dare dello “zio” a chi ne ha diritto. L’etimologia lo fa risalire alla parola greca “theios” che significa divino e quindi legato al concetto di rispetto verso il fratello (o una sorella) del genitore. Io col divino ho un rapporto incerto e per quanto riguarda il rispetto verso un ruolo, beh ho un rapporto ancora più difficile. Per me le persone vanno trattate per quelle che sono, non per essere il “fratello di”, “cugina di”, “figlio di” (riempire quest’ultima locuzione a piacere). Poi da quando i rapper hanno adottato la parola “zio” come saluto all’altro, credo si sia raggiunto il capolinea del significato.
Potrei continuare, ma mi fermo qui, per tornare all’inizio. Non voglio essere chiamato Papà. È come se fossi privato della mia identità di Manlio. io ci sto bene dentro il mio nome, sembra tagliato su misura sulle mie spalle e sul mio carattere (e sulle mie idiosincrasie). Papà mi fa perdere i capelli e mi fa cadere su un divano. Papà mi fa sentire in bocca il gusto amaro di una tradizione da perpetrare. In poche parole essere chiamato papà mi fa sentire come se dovessi rinunciare alla agilità del mio nome “speciale” per abbandonarmi al dispiacere dell’essere comune (non a caso è un nome COMUNE di persona).
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E poi pensateci: è una parola troppo facile. Pa pa pa pa. È la lallazione primaria dell’infante. Che fantasia… scegliere i primi suoni che emette il mini-uomo o la mini-donna come nome da affibbiare per una intera vita a un genitore. Diamo un po’ di stimolo a questi bambini, abituiamoli alla diversità!
Qualcuno, pensando di aver capito il problema, mi dice: “fatti chiamare Babbo, allora”. È peggio credetemi. Babbo mi fa crescere la barba e venir la voglia di mettermi una pipa in bocca. Babbo mi fa sentire un “buon uomo” e non immaginate quanto disagio mi inietti nel cervello un’idea del genere. No Babbo no. Scartato.
A dire papà, babbo e mamma son buoni tutti, anche il più rincoglionito dei marmocchi. Io vorrei qualcosa di più, io vorrei che fosse lei, mia figlia, a decidere come chiamarmi. E poi io non la chiamerò mica FIGLIA, io la chiamerò per nome, le riconoscerò la sua identità. Da subito. Par condicio, please.
Io  vorrei essere chiamato semplicemente Manlio. O Kappa come mi chiamano alcuni miei amici (la storia del mio vecchio soprannome è lunga e ha a che fare con una K tatuata sul mio braccio e con Kafka che ho sempre amato). O come diavolo le verrà in mente di chiamarmi. Ma essere un “papà” in mezzo a tanti papà tutti uguali (di nome almeno) proprio non mi va giù.
Scena: davanti scuola, lei esce e comincia a chiamare papà. E il suo è un suon simile in mezzo ai tanti e le tante che chiamano papà. Un’orgia di nomi tutti uguali, un baccano unisono, una confusione in cui le identità si sono fuse in un unico bolo semantico.
E allora, ti scongiuro Frida, non chiamarmi papà. Anche se ti diranno che così l’autorità viene meno. Anche se le mamme sui forum inorridiscono davanti a questa eventualità (ecco cosa scrive una di queste madri isteriche: “quella di chiamare i genitori per nome è una fase che molti bambini attraversano, spontaneamente. Il mio mi ha sempre chiamato mamma, suo padre lo chiama papà,ma ogni tanto per nome. Poi passa”. POI PASSA??? ah quindi è una malattia della crescita, buono a sapersi). 
Per concludere: diffidate dei  i “forum delle mamme” e combatteteli, sono più pericolosi e deliranti di quelli degli jihadisti!

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