mercoledì 29 luglio 2015


Il giorno in cui è nata mia figlia

Frida c'è. 
Dopo averla immaginata, sognata, intuita è venuta alla luce (elettrica) di una sala parto alle 15:17 di un lunedì di fine luglio.

Frida all'età di 3 ore
Tutti si sono sorpresi per l'eleganza della sua puntualità. Perché il gesto della nascita è arrivato con esattezza di sceneggiatura il giorno dopo la chiusura del grande delirio del festival di Giffoni, dove Simona e, soprattutto, io eravamo impegnati fino al collo. Se fosse nata solo un giorno prima sarebbe stata, non dico una catastrofe, ma certamente una bella "gatta da pelare".

Quello che invece ha colpito me è stata la violenza e la bellezza del parto. E della sua preparazione. La formazione esistenziale di un essere umano di sesso maschile non si può dire completa se non ha vissuto un'esperienza intensa come questa. Come osservatore, s'intende.

La venuta al Mondo di un bambino, quando non asetticamente "composta" a tavolino con il taglio cesareo, è una lotta di corpi. È una coreografia di dolori e di emozioni in cui la Madre e la Figlia (o il figlio) recitano le uniche parti che contano. 

La locuzione "parto naturale" evoca in tutti la limpidezza, la semplicità, la scorrevolezza di qualcosa che funziona quasi in automatico. Invece la parola "naturale" alla fine della giornata si rivela per quello che è: la definizione di qualcosa di drammatico, di aggressivo, finanche di "infernale". 
Infernale come solo la Natura sa essere.

Si comincia con il travaglio. Io sono vicino a Simona. Le tengo la mano mentre le onde di dolore montano in lei, monitorate dal "tracciato" di un macchina che ne segue l'evoluzione. Presto i numeri sul piccolo monitor senza fronzoli mi diventano familiari. E quando una certa cifra aumenta sul cardiotocografo (in particolare presto i miei occhi si focalizzano sul valore "toco" che evidentemente misura il picco della contrazione uterina) vedo sul volto di Simona comparire lo strazio.

Col passare dei minuti, delle mezzore, delle ore (ma non tante) il dolore la fa prigioniera. Il suo sguardo si allontana sempre di più, come se fosse ormai concentrato su una zona distante che solo lei può vedere. Il dolore può stordire e quello del travaglio è come uno stupefacente che ti scolla dalla realtà e ti porta in una dimensione in cui, immagino, tutto si distorce in una prospettiva personale. 

Imparo un altro termine che si rivela sempre più luminoso. Come un'insegna che inizialmente ti è estranea, ma poi capisci che è l'unica che ti porterà a destinazione. Il termine in questione è "dilatazione". Qui si parla in centimetri. Maria la dolce ostetrica, giovane e dal volto rassicurante, che a guardarla sembra più una ricercatrice universitaria (precaria) di filosofia che una infermiera specializzata in far nascere bambini, ci fa sapere che la dilatazione della vagina va alla grande. È passata dall'un centimetro delle 10 del mattino ai 4 cm alle 12:30. "siamo a metà strada" ci dice sussurrando e palesemente soddisfatta. "Metà strada", penso io terrificato, guardando la smorfia dolente che è la maschera piazzata salda sul volto di Simona.

Quando la dilatazione è completa mancheranno dieci minuti alle 15. Mi avvio in sala parto. Non si potrebbe entrare, ma mi danno un permesso speciale. Non voglio perdermi questi momenti in cui la lotta si fa più dura, in cui la vita reclama gridando un nuovo posto in mezzo a noi. 

Nei film le sale parto sono piene di macchinari e di colori, il trionfo dell'asettico scintillio del dispositivo elettronico. Nella realtà, quella dove di lì a poco nascerà Frida, è una stanza sì piena di apparecchi dall'aspetto medico, ma questi hanno tutta l'aria di residuati malconci e antiquati, che stanno lì come come pezzi di scenografia da una scena girata in precedenza e non ancora sbaraccati.

In fin dei conti per partorire occorre l'essenziale: un lettino con supporti per le cosce, una lampada che fa luce come i fari del San Siro, un'ostetrica che conduce le manovre davanti alla povera donna divaricata e sudata, il medico che impartisce ordini soavi e si prodiga in consigli che non credo vengano recepiti del tutto e, al limite, un'assistente navigata, svelta ed emozionata per il parto come uno spettatore che vede per la 170ma volta lo stesso film. Addirittura per sentire il battito si ricorre ancora a un aggeggio di legno (vedi foto sotto) che sembra un calice flute dove sorseggiare del "latte spumante" (non esiste, ma sarebbe bello berlo).

Stetoscopio Pinard

Gli ultimi dieci minuti prima dell'uscita di Frida rispettano il classico crescendo (leggasi "climax") di ogni buona storia che si rispetti. Il dolore incalza e deforma in smorfie sataniche il volto di Simona. Le sue mani si tengono sempre più strette alle staffe. I capelli sono zuppi e gli sbuffi della respirazione sono sincopati e bollenti. Io le faccio sentire che ci sono. L'emozione cresce in me, ma non sovrasta il senso cinematografico del momento. Sono concentrato sui dettagli, sono entusiasta di star assistendo a quella esplosione esistenziale che è la nascita.

L'ostetrica mi dice di spostarmi avanti. Si intravedono i capelli di Frida. La testa mi appare - attraverso la stretta feritoia del sesso di mia moglie - come un parallelepipedo piuttosto che come una sfera. Dicono a Simona di spingere con forza. Lei pensa di non farcela. Credo che tutte le madri del Mondo in questo momento hanno la sensazione di perdere le forze, di essere inadeguate fisicamente, di non riuscire a espellere questo "amatissimo nemico" in corpo (non esiste che  si può amare il proprio figlio nell'attimo in cui passa attraverso le tue viscere, nessuno mi convincerà del contrario).

Poi ecco la testa. Quante volte l'ho visto nei film questo momento? Eppure dal vivo è tutto un altro spettacolo. È come aver immaginato il mare per una vita, visto in foto, ripreso in video e poi improvvisamente, per la prima volta, ti ritrovi di fronte alla sua maestosa presenza con tutto il corteo di profumi, di suoni, di brezze alate.

Certo la nascita è molto meno poetica. Molto meno profumata. Molto meno pulita. Molto meno silenziosa.

Tagliano il cordone. Che ne film mi è sempre sembrato più stretto e più aggraziato. Frida piange. È il vagito primitivo che annuncia l'entrata in scena di un nuovo essere umano e della fine della nostra  (mia e di Simona) vecchia vita.

Io non piango, sono ancora stordito dalla bellezza del momento. Lei piange, invece, forse preoccupata dalla bruttezza del Mondo. E mentre la depositano nelle mie mani risuonano in me i versi di una poetessa che amo molto (Marina Cvetaeva):

Vieni vicino al mio petto,
più stretto:
nascere, piccolo, é cadere nel tempo.
Dal non-dove, non-terra,
così rovinosa discesa!
Da spirito in – polvere!
Piangi, bambino, per te, per tutti:
nascere – é cadere nel corpo!
Piangi, piccolo, per il futuro, e ancora:
nascere – é cadere nel giorno!

La tengo piano, impaurito per la fragilità di un essere appena coniato. Non penso che quella è mia figlia. Non penso che quel piccolo umano di tre chili e mezzo farà saltare ogni impalcatura della mia vita fino a quel momento. Non penso a quello che è, quello che è stato e a quello che verrà. Non penso a nulla, come se avessero staccato la corrente nel cervello.

La sua leggerezza nelle mie mani diventa la leggerezza improvvisa del Mondo. E io con lei cado nel tempo.





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