venerdì 31 luglio 2015

Indifferenza a prima vista: Elrond conosce Frida

Immaginate un incontro tra una straordinaria pittrice messicana che ha fatto della sua vita una (dolente) opera d'arte - FRIDA- e un personaggio fantasy di rara eleganza e nobiltà, il sire elfico di Gran Burrone che è tra le figure più potenti dell'universo de Il signore degli Anelli: ELROND.

Chissà che si direbbero in questo improbabile rendez-vous surreale e suggestivo. Non ho proprio idea di cosa avverrebbe tra di loro, ma posso testimoniare di quello che è avvenuto tra la "mia" Frida e il "mio" Elrond: due pezzi del mio cuore e della mia vita. Mia figlia e il mio prezioso amico a quatto zampe.

Frida ed Elrond - 30 luglio

Premessa d'obbligo: in questi giorni non ricordo più quante volte le persone ( i parenti più stretti nello specifico) ci hanno lavato il cervello a furia di: "Attenti al cane. Mi raccomando. Non lasciateli mai soli. State sempre con gli occhi aperti. Non vi fidate" e così via. Ora rispondo definitivamente, anche per iscritto: 

1. Io e Simona non siamo due sprovveduti e io ho scritto anche un libro sui cani, con il grande Roberto Mucelli, e finanche un paio di capitoli di Io e il cane sono dedicati al rapporto tra bambino e amico a 4 zampe.

2. C'è troppa demonizzazione mediatica sul cane in casa e sulla relazione con i piccoli. L'ignoranza (che è il sonno della ragione) da sempre partorisce mostri. Tra questi il più famelico è "la preoccupazione ad oltranza". Non sono i cani ad uccidere i piccoli umani, ma l'imbecillità di chi non sa gestire le situazioni e sempre quel padre di mostri infami che è l'Ignoranza. 

3. Conseguenza dei punti uno e due: non sottovaluteremmo mai tutte le dinamiche di rapporto tra cane e neonato, perché amiamo Elrond e siamo già pazzi di Frida. In noi non c'è mai stata scelleratezza e non vedo come dovrebbe rivelarsi improvvisamente adesso. Quindi parenti, please, smettetela con le vostre avvertenze d'uso.

E ora veniamo al racconto.

Arriviamo a casa in mattinata. Elrond ci accoglie con quel modo specifico dei cani di farti sentire indispensabile. Come se fossi Ulisse che torna a Itaca dopo vent'anni, mentre sei mancato non più di mezz'ora (ma quanti anni è vissuto il cane Argo se dopo due decadi era ancora lì ad aspettare il suo padrone e a riconoscerlo? I veterinari dell'antica Grecia erano dei geni oppure gli animali particolarmente longevi). Io ho il portenfant in mano e dentro c'è Frida che dorme placida. Elrond sembra già interessato al nuovo arrivo.

Dopo un po' dispongo questo cesto-culletta sul tavolo perché non ci fidiamo ancora a metterlo ad altezza Elrond. Ma dopo un po' la piccola si sveglia lanciando i suoi allarmi foratimpani a forma di "ngué". In quel momento scatta l'istinto predatore del nostro border. E si attiva la mia preoccupazione.  

Io conosco bene Elrond e lui ha un'indole da cacciatore per i gatti. Lui non è uno di quei cani "degenerati" che convivono placidamente con i felini (lo dico subito, sono ironico... so quanto possano essere seri e polemici i cinofili-gattofili). Lui gli staccherebbe il collo a tutti e infatti in più di un'occasione ci ha provato. Perché dico questo? Perché il richiamo dei gatti in calore, che per Elrond ha lo stesso valore attrattivo di bicchiere di sangue verginale messo sotto al naso di un vampiro affamato, somiglia in maniera pericolosa ai vagiti di un bambino.

Eccolo che si avvicina al portenfant con le orecchie ritte, la coda a scorpione e gli occhi iniettati di sana curiosità assassina. Noi lo teniamo a bada, ma allo stesso tempo non abbiamo intenzione di "punirlo" con l'allontanamento coatto. Anzi deve arrivare il momento della presentazione ufficiale. 

Scegliamo la poppata come "situazione" ideale per l'avvicinamento. Sarei bugiardo se dicessi che sono tranquillo. In me ecco precipitare a valle le immagini di tanti film macabri ("Cujo" su tutti) e  di pensieri nefasti. Ma vinciamo le paure, più mie che di Simona, e lasciamo che la punta del naso di Elrond incontri il piedino scalciante di Frida e meglio ancora la sua zucca semipelata e ancora così fragile.

Simona allatta e Elrond si muove intorno a loro, come uno squalo intorno a una tavola di windsurf  condita di umano. (la foto più su parla chiaro). Poi si sposta verso il "contenitore" di Frida. Il portenfant. Più volte si mette a due zampe per salire a guardare cosa ci sia là dentro. Per sentire gli odori che possono dare qualche notizia sul suo abitante umano. 

Fatto sta che dopo pochi minuti Elrond sembra aver perso interesse per il nuovo arrivato. Certo la guarda con perplessità quando ricomincia a piangere, ma dopo un attimo si allontana annoiato come un fratello adolescente che si vede piombare in casa un fagotto di sorella che non promette nulla di buono. Ancora qualche minuto e Elrond diventa immune anche ai suoi versetti alieni.

La giornata trascorre tranquilla e la notte lasciamo che Elrond continui a dormire nella nostra stanza come ha sempre fatto, anche se ora accanto al letto è spuntata una "cuccia" principesca per questo neoarrivato nel nostro branco. Vedremo come evolverà questo rapporto, ma per ora è possiamo riassumere il loro rapporto in un deciso: "indifferenza a prima vista"!










mercoledì 29 luglio 2015

Il giorno in cui è nata mia figlia

Frida c'è. 
Dopo averla immaginata, sognata, intuita è venuta alla luce (elettrica) di una sala parto alle 15:17 di un lunedì di fine luglio.

Frida all'età di 3 ore
Tutti si sono sorpresi per l'eleganza della sua puntualità. Perché il gesto della nascita è arrivato con esattezza di sceneggiatura il giorno dopo la chiusura del grande delirio del festival di Giffoni, dove Simona e, soprattutto, io eravamo impegnati fino al collo. Se fosse nata solo un giorno prima sarebbe stata, non dico una catastrofe, ma certamente una bella "gatta da pelare".

Quello che invece ha colpito me è stata la violenza e la bellezza del parto. E della sua preparazione. La formazione esistenziale di un essere umano di sesso maschile non si può dire completa se non ha vissuto un'esperienza intensa come questa. Come osservatore, s'intende.

La venuta al Mondo di un bambino, quando non asetticamente "composta" a tavolino con il taglio cesareo, è una lotta di corpi. È una coreografia di dolori e di emozioni in cui la Madre e la Figlia (o il figlio) recitano le uniche parti che contano. 

La locuzione "parto naturale" evoca in tutti la limpidezza, la semplicità, la scorrevolezza di qualcosa che funziona quasi in automatico. Invece la parola "naturale" alla fine della giornata si rivela per quello che è: la definizione di qualcosa di drammatico, di aggressivo, finanche di "infernale". 
Infernale come solo la Natura sa essere.

Si comincia con il travaglio. Io sono vicino a Simona. Le tengo la mano mentre le onde di dolore montano in lei, monitorate dal "tracciato" di un macchina che ne segue l'evoluzione. Presto i numeri sul piccolo monitor senza fronzoli mi diventano familiari. E quando una certa cifra aumenta sul cardiotocografo (in particolare presto i miei occhi si focalizzano sul valore "toco" che evidentemente misura il picco della contrazione uterina) vedo sul volto di Simona comparire lo strazio.

Col passare dei minuti, delle mezzore, delle ore (ma non tante) il dolore la fa prigioniera. Il suo sguardo si allontana sempre di più, come se fosse ormai concentrato su una zona distante che solo lei può vedere. Il dolore può stordire e quello del travaglio è come uno stupefacente che ti scolla dalla realtà e ti porta in una dimensione in cui, immagino, tutto si distorce in una prospettiva personale. 

Imparo un altro termine che si rivela sempre più luminoso. Come un'insegna che inizialmente ti è estranea, ma poi capisci che è l'unica che ti porterà a destinazione. Il termine in questione è "dilatazione". Qui si parla in centimetri. Maria la dolce ostetrica, giovane e dal volto rassicurante, che a guardarla sembra più una ricercatrice universitaria (precaria) di filosofia che una infermiera specializzata in far nascere bambini, ci fa sapere che la dilatazione della vagina va alla grande. È passata dall'un centimetro delle 10 del mattino ai 4 cm alle 12:30. "siamo a metà strada" ci dice sussurrando e palesemente soddisfatta. "Metà strada", penso io terrificato, guardando la smorfia dolente che è la maschera piazzata salda sul volto di Simona.

Quando la dilatazione è completa mancheranno dieci minuti alle 15. Mi avvio in sala parto. Non si potrebbe entrare, ma mi danno un permesso speciale. Non voglio perdermi questi momenti in cui la lotta si fa più dura, in cui la vita reclama gridando un nuovo posto in mezzo a noi. 

Nei film le sale parto sono piene di macchinari e di colori, il trionfo dell'asettico scintillio del dispositivo elettronico. Nella realtà, quella dove di lì a poco nascerà Frida, è una stanza sì piena di apparecchi dall'aspetto medico, ma questi hanno tutta l'aria di residuati malconci e antiquati, che stanno lì come come pezzi di scenografia da una scena girata in precedenza e non ancora sbaraccati.

In fin dei conti per partorire occorre l'essenziale: un lettino con supporti per le cosce, una lampada che fa luce come i fari del San Siro, un'ostetrica che conduce le manovre davanti alla povera donna divaricata e sudata, il medico che impartisce ordini soavi e si prodiga in consigli che non credo vengano recepiti del tutto e, al limite, un'assistente navigata, svelta ed emozionata per il parto come uno spettatore che vede per la 170ma volta lo stesso film. Addirittura per sentire il battito si ricorre ancora a un aggeggio di legno (vedi foto sotto) che sembra un calice flute dove sorseggiare del "latte spumante" (non esiste, ma sarebbe bello berlo).

Stetoscopio Pinard

Gli ultimi dieci minuti prima dell'uscita di Frida rispettano il classico crescendo (leggasi "climax") di ogni buona storia che si rispetti. Il dolore incalza e deforma in smorfie sataniche il volto di Simona. Le sue mani si tengono sempre più strette alle staffe. I capelli sono zuppi e gli sbuffi della respirazione sono sincopati e bollenti. Io le faccio sentire che ci sono. L'emozione cresce in me, ma non sovrasta il senso cinematografico del momento. Sono concentrato sui dettagli, sono entusiasta di star assistendo a quella esplosione esistenziale che è la nascita.

L'ostetrica mi dice di spostarmi avanti. Si intravedono i capelli di Frida. La testa mi appare - attraverso la stretta feritoia del sesso di mia moglie - come un parallelepipedo piuttosto che come una sfera. Dicono a Simona di spingere con forza. Lei pensa di non farcela. Credo che tutte le madri del Mondo in questo momento hanno la sensazione di perdere le forze, di essere inadeguate fisicamente, di non riuscire a espellere questo "amatissimo nemico" in corpo (non esiste che  si può amare il proprio figlio nell'attimo in cui passa attraverso le tue viscere, nessuno mi convincerà del contrario).

Poi ecco la testa. Quante volte l'ho visto nei film questo momento? Eppure dal vivo è tutto un altro spettacolo. È come aver immaginato il mare per una vita, visto in foto, ripreso in video e poi improvvisamente, per la prima volta, ti ritrovi di fronte alla sua maestosa presenza con tutto il corteo di profumi, di suoni, di brezze alate.

Certo la nascita è molto meno poetica. Molto meno profumata. Molto meno pulita. Molto meno silenziosa.

Tagliano il cordone. Che ne film mi è sempre sembrato più stretto e più aggraziato. Frida piange. È il vagito primitivo che annuncia l'entrata in scena di un nuovo essere umano e della fine della nostra  (mia e di Simona) vecchia vita.

Io non piango, sono ancora stordito dalla bellezza del momento. Lei piange, invece, forse preoccupata dalla bruttezza del Mondo. E mentre la depositano nelle mie mani risuonano in me i versi di una poetessa che amo molto (Marina Cvetaeva):

Vieni vicino al mio petto,
più stretto:
nascere, piccolo, é cadere nel tempo.
Dal non-dove, non-terra,
così rovinosa discesa!
Da spirito in – polvere!
Piangi, bambino, per te, per tutti:
nascere – é cadere nel corpo!
Piangi, piccolo, per il futuro, e ancora:
nascere – é cadere nel giorno!

La tengo piano, impaurito per la fragilità di un essere appena coniato. Non penso che quella è mia figlia. Non penso che quel piccolo umano di tre chili e mezzo farà saltare ogni impalcatura della mia vita fino a quel momento. Non penso a quello che è, quello che è stato e a quello che verrà. Non penso a nulla, come se avessero staccato la corrente nel cervello.

La sua leggerezza nelle mie mani diventa la leggerezza improvvisa del Mondo. E io con lei cado nel tempo.





giovedì 16 luglio 2015

La pancia al piede, ovvero i tormenti della gravidanza

Se fossi una donna che si sente dire: "la gravidanza è uno stato di grazia, goditela", sfodererei il mio sorriso più luminoso e poi colpirei con una testata sul setto nasale l'autore dell'affermazione. 

Simona: 37 settimane e 3 giorni
Simona è arrivata al nono mese. Ho osservato da vicino questo cammino tortuoso che ora si avvia al termine. L'ho visto iniziare come un percorso tranquillo, una passeggiata in una valle più o meno fiorita per poi diventare un gara di trekking sempre più impegnativa, fino a trasformarsi in un calvario (ma senza sputi e colpi nel costato).

Io di gravidanza ne sapevo poco fino a che non ne ho visto una da vicino. Ne sapevo quello che tutti i maschi adulti ne sanno: un concentrato di conoscenze vaghe e misteriose, condite da una densità così alta di luoghi comuni che la gestazione finisce per diventare poco più che una storia da cartone animato.

Per esempio io immaginavo Simona sconvolta da nausee così violente da rendere la nostra vita come un viaggio a bordo di una nave di marinai in mezzo a un oceano di onde alte quanto un palazzo. Immaginavo mia moglie incazzata nera ogni giorno per il vomito sempre a fior di labbra. La realtà: nemmeno una nausea, nemmeno un accenno in nove mesi. Ne ho avute più io a contatto con certe persone che incontri ogni tanto sulla tua strada. 

Altro stereotipo è quello della mamma felice della sua pancia. Ormai Simona se potesse prendere un'ascia e togliersela dal corpo (senza far male a Frida per carità) non se lo farebbe dire due volte. La pancia le piace come può piacere a un prigioniero da fumetto quella grossa palla al piede nera che lo tiene schiavo della legge. Si può dire che quella della gravidanza è una vera "pancia la piede". 

La pancia è un macigno conficcato tra costole, inguine, vescica, schiena. Costringe Simona ad alzarsi ogni ora per andare in bagno. Pesa sulle gambe e sui piedi che sono diventati gonfi ed enormi come quelli di Fiona, la moglie di Shrek (ma senza quel simpatico colorito verde, per fortuna).

Quando deve alzarsi dal letto o dal divano sembra Gregor Samsa (questa la capisce solo chi ha letto La Metamorfosi del mio amato Kafka).

Quando deve salire le scale sembra un alpinista che sta scalando il K2 dopo che ha passato la notte a scongelarsi i testicoli.

Quando deve infilarsi le scarpe ha la stessa grazia di un pellicano rimasto invischiato in una marea nera di petrolio. 

Per non parlare poi di tutte le privazioni a cui va incontro chi è in "dolce attesa" (ma quale mente sadica e bacata ha partorito questa locuzione? è un'attesa che diventa estenuante, dolce come uno yogurt greco lasciato fuori al sole di questa estate infernale).

La verdura e la frutta devi lavarla così bene e con tanta meticolosità per il pericolo toxoplasmosi che fai prima a sgrezzare un diamante sudafricano  (il solo pronunciarla questa malattia mi fa uscire gli occhi dai bulbi) . Non puoi mangiare frutti di mare, non puoi mangiare svariati tipi di formaggio, non puoi prendere questo e non puoi assaggiare quello. 

E non puoi usare medicine, così quando arriva un'allergia di stagione, ti può prendere a cazzotti in faccia fino a farti somigliare (tra starnuti, muco, occhi arrossati) a un boxer che ha appena fatto il suo primo allenamento che si trova per sbaglio a salire sul ring con Mike Tyson. 

Insomma la natura non è stupida. Ti rende così insopportabile l'attesa (certo quella dolce) che ti dimentichi che sul traguardo ti aspetta il "mostro di fine livello" (questa la capiscono soltanto i giocatori di videogame, i nerd, i geek e quelli degli anni 80 che andavano a spendere tutti i soldi dei genitori in quelle sale giochi pieni di suoni orrendi e luci maniacali), cioè il parto, cioè quel simpatico momento in cui un essere umano con tanto di testa, spalle, braccia, gambe e piedi ti esce dal corpo, con la stessa dimestichezza con cui una palla da bowling si prende la briga di cercare un varco attraverso l'apertura di un portamonete!