lunedì 30 marzo 2015

Il nome di mia figlia: FRIDA

«È lecito inventare dei verbi nuovi? Voglio regalartene uno: IO TI CIELO, così che le mie ali possano distendersi smisuratamente, per amarti senza confini». Frida Kahlo


Frida Kahlo

Ieri come molti di voi amici di Facebook sanno, ho lanciato uno scherzoso sondaggio per il nome di mia figlia, o meglio: per ascoltare il parere degli altri sulla “infiltrazione” di un altro nome (Greta) nelle preferenze onomastiche per la bambina che nascerà tra qualche mese

Tantissimi commenti, alcuni telegrafici, di puro voto, altri più articolati, più elaborati con tanto di motivazione. Anche messaggi privati, telefonate (di familiari) e whatsapp. Questa bambina nasce che più “social” non si potrebbe. Qualcuno penserà che sia troppo, per me invece è giusto. E bellissimo. Cullarla dentro un abbraccio multiforme, dentro centinaia di sguardi, al ritmo di decine e decine di cuori. Di amici. Chi più stretto, chi meno. Chi conosciuto dal vivo, chi solo attraverso uno schermo. 

Io sono un fervente sostenitore di Facebook che è uno strumento e in quanto tale può far bene o far male a seconda del nostro modo di usarlo. Delle nostre intenzioni. Delle nostre finalità. E sono convinto che i nomi siano potenti come incantesimi. Le parole hanno il potere di forgiare le cose e il nostro pensiero delle cose e del Mondo. I nomi sono parole all’ennesima potenza. 

Il mio è stato un esperimento di confronto, un modo per allargare il pensiero mio e di mia moglie Simona in una dimensione più vasta. E ci ha fatto bene. In particolare un messaggio di una mia amica che, in privato, mi ha scritto: “Chiama Frida tua figlia, solo per dirle “io ti cielo” quando la vedrai.

E lì un oceano di senso mi ha travolto. Ha fatto brillare in me una delle frasi di Frida Kahlo che più amo, uno di quei pensieri che da vent’anni mi porto dentro, da quando nel 1994 - leggendo un articolo su una rivista d’arte - conobbi questa artista di debordante passione, questa donna irripetibile, questo essere umano bello di una bellezza che supera l’orizzonte estetico. 

«È lecito inventare dei verbi nuovi? Voglio regalartene uno: io ti cielo, così che le mie ali possano distendersi smisuratamente, per amarti senza confini». 

Improvvisamente le nuvole dell’incertezza sono state spazzare via da una brezza invisibile, ma decisa. Come capita in certi giorni invernali, quando una mattina incolore improvvisamente si apre in una folgorante giornata. 

Ho ripreso in mano i fili della mia scelta iniziale. Una scelta che non è stata mai neppure una “scelta”, ma una naturale associazione tra un NOME che per me da vent’anni significa così tanto e un ESSERE AMATO che esiste (e quindi significa) già tanto. C’è in tutta la sua presenza, intangibile, nascosta dentro un’altra carne che amo.

Greta è un bel nome. Suona armonioso, dolce, morbido. È raffinato, senza essere austero e algido. È elegante senza la spocchia di chi si sente superiore. Ma non è il nome di mia figlia. Non ha la rarità, la nobiltà, la fierezza, la potenza evocativa di FRIDA. 

Ecco la capacità di evocare. Frida è la rivoluzione della vita dentro le viscere della sofferenza. Frida è il colore che “scorre e apre sentieri che non si percorrono invano”. Frida consuona con il termine amore, senza farci rima. Frida è un brivido. Frida è un vestito sgargiante che si indossa non per fare impressione, ma per dare emozioni. 


Questa sera, mentre scrivo, ho trovato quella “sicurezza” e quella “pace” che sono l’etimologia del suo nome. Greta, invece, significa “perla” e sono sicuro che quelle bambine che indossano o vestiranno questo nome saranno preziose come il nome suggerisce. Ma Greta è una perla di una collana che non mi appartiene

Mia figlia sarà Frida e per citare ancora la magnifica Kahlo: “Io ti consegno il mio Universo”, Frida. E quando ti vedrò ti guarderò e ti dirò “io ti cielo”, per amarti senza confini. 

sabato 28 marzo 2015

Horror Parto

Se io dovessi dare un consiglio, uno solo, a una donna in procinto di partorire per la prima volta sarebbe questo: “Non chiedere come sarà il parto a una donna che l’ha già fatto”. 

Perché? Perché i racconti di chi ha partorito spaventerebbero anche un duro come Chuck Norris. Nei racconti di chi ha già messo al Mondo un figlio ci sono tutti gli elementi del pulp-horror: sofferenze indicibili, sangue, cordoni soffocanti, profusione di liquidi e dolore. Ancora dolore e tanto dolore. 

Illustrazione di Mary Clark Ladd 

La scena è sempre la stessa e si ripete (da un punto di vista narrativo) con rassicurante schematicità. Come se un autore dalla vena caustica avesse scritto una sceneggiatura terrificante e spassosa allo stesso tempo, che tutte le ex-partorienti hanno imparato a memoria. Le uniche variabili hanno a che fare con i dettagli del parto.

Ecco la sequenza.

Incontri per caso la mamma che apprende la notizia. Subito la vedi indossare il suo sorriso più smagliante. È felice per te, ti dice che è la cosa più bella che possa capitarti, che è lo sconquasso sublime della tua vita. 

Simona si passa le mani sulla pancia che ormai è cresciuta e, pur senza essere grossa come un pallone ad elio che non vuole alzarsi da terra, ha tutta la dignità di “pancia da gravidanza” (fino a poco fa potevi scambiarla per lo stomaco gonfio di una alcolizzata dedita a serate di birra e vino). Poi dice con la voce rotta da un autentico e sottile terrore, con quel tono di chi non vuole altro che essere rassicurata: “Ho solo paura per il parto”.

Qui il volto della mamma subisce una lieve mutazione. Quasi impercettibile, ma se osservi con attenzione te ne accorgi. Le labbra hanno sempre la forma di un sorriso, ma diventa più stirato, come incrinato da una certa perfidia. Negli occhi brilla la luce di un ricordo e l’espressione si colora di quelle sfumature che hanno i saggi quando raccontano di esperienze che serviranno al progresso dell’umanità.

Comincia sempre così: “Ma no Simona non devi preoccuparti. Figurati”. 
Pausa. 
Simona fa l’errore di chiedere: “ a te come è andata?”. 
Improvvisamente la mamma diventa un narratore. Anche chi non si è mai presa la briga di raccontare una storia al proprio figlio la notte prima di addormentarsi, ora tira fuori una vena da scrittore da fare invidia a Stephen King e John Grisham. 

Qui vanno in scena le variazioni sul tema:

“Guarda per me è stato terribile. Ho avuto 11 ore di travaglio” (giuro non sto esagerando, una ragazza ha detto questo e io c’ero). Vedo la faccia di Simona trascolorare. Mi guarda come a dire: “perché non lo fai tu il bambino?” e sento la stretta della sua mano che si fa più tesa nella mia. E poi il racconto va avanti con dettagli raccapriccianti di dolori inauditi. Ma tutto raccontato con simpatia, con divertimento, con quel sano eroismo che contraddistingue una madre-coraggio.

Un’altra ci ha raccontato del proprio figlio che stava per essere strangolato dal proprio cordone ombelicale. “Aveva il colore di quella sciarpa lì la sua faccia” indicando un capo d’abbigliamento viola scuro. 

Un’altra le ha narrato del proprio figlio che stava per morire soffocato nella sua placenta perché non so come era fuoriuscito “quasi tutto il liquido” e non aveva più di che respirare.

Un’altra ha detto “hai presente il dolore delle coliche, moltiplicalo per 10”. (io quel dolore una volta l’ho provato e se lo divido per due pure mi sembra insopportabile!)

Un’altra ancora ha avuto il problema che la bambina era così grande (alla fine pesava 5.3 kg) che dopo tutto il travaglio in cui questo ibrido tra “essere umano” e “essere manzo” non voleva saperne di uscire da una fessura troppo piccola per la sua stazza, ha dovuto ricorrere al cesareo.

Un’altra ancora ha confessato di aver partorito strillando e scalciando.

Il parto è il vero spauracchio di ogni donna incinta. Almeno così credo, non ho una statistica precisa, ma per esperienza diretta lo sono quasi certo. 

Così come è sicuro che qualcosa di provvidenziale nella memoria di una donna aiuta a cancellare il suo ricordo traumatico, altrimenti ci sarebbero solo figli unici. Anzi chi è già alla seconda gravidanza (e a maggior ragione per quelle eroine folli che arrivano anche alla terza - lasciamo stare quelle dalle 4 in su: qui si parla di abominio) vive con più rilassatezza il momento del "delivery" (per dirla all'inglese, termine che mi piace molto). 

Certo già sanno a cosa vanno incontro, direte voi. Ma se a me dovessero dire: "tu hai già avuto una colica, quindi sarai più rilassato alla seconda", io guarderai questo mentecatto con occhi pietosi e increduli. 

La verità, in sintesi, è che non ho consigli da dare in quanto maschio (e quindi gioioso invertebrato che godrà della nascita della sua figlia senza il travaglio del momento) se non quello riportato all'inizio: se una donna volesse raccontarvi il suo parto, mettetela a tacere! In tutti i modi possibili. Violenza compresa. 

mercoledì 25 marzo 2015

La morfologica, il sonno dei non nati

Il processo di avvicinamento al più naturale dei “fatti” umani (la nascita di un bambino) è scandito da uno sconcertante percorso a tappe “tecnologiche” segnato da nomi degni di una storia intergalattica o fantascientifica. 

Gli esami hanno titoli suggestivi che farebbero godere un nerd amante di sci-fi:  Ecografia transvaginale, Translucenza nucale (sembra una delle armi che il vecchio robot Goldrake annuncia prima di lanciarle contro gli avversari: alabarda spaziale, lame rotanti… translucenza nucale - e invece è solo un tipo di ecografia che si effettua su un tratto della nuca del feto per scongiurare certi tipi di malformazioni), Amniocentesi, Dual Test e la famosa MORFOLOGICA.

Il 17 marzo è il giorno fatidico per questa ulteriore e importante indagine dello sviluppo della gravidanza. La morfologica, appunto. È da poco passata l’ora di pranzo. Io sento sulle palpebre il richiamo suadente del sonno, combattuto dalla tensione emotiva dovuta alla consapevolezza che tra poco vedrò Frida in uno schermo, un po’ più cresciuta e addirittura in 3d. L’ecografia morfologica serve proprio a controllare che tutto si stia formando come si deve: arti, colonna vertebrale, cranio, cervello e tutto il ripieno umano (reni, fegato, stomaco eccetera eccetera).

Ci accomodiamo in una saletta calda e in penombra. C’è anche un piccolo divanetto di fronte al letto serissimo dove si va a stendere Simona. Il ginecologo deve ancora arrivare, ma io Simona e Angela (sua madre) già parliamo sottovoce e per bisbigli, come se le parole fossero vietate, come se lo spettacolo fosse già cominciato, come se stessimo complottando per un attacco terroristico.

Arriva il dottore (Giuseppe Capece) in un immacolato camice bianco. È lo stesso dell’amniocentesi. Alto, barba incolta, bel portamento, sguardo ironico e voce con bassi pronunciati: sembra un attore di teatro impegnato, più che un indagatore di placente. Spegne altre luci e ora siamo al buio, c’è solo un piccolo caldo fascio luminoso sul centro della scena: Simona a pancia a scoperta e il medico che con la sua sonda bussa a casa Frida. 

Io e Angela sul divanetto siamo pronti a individuare sullo schermo di fronte a noi le immagini della piccola, inconsapevolmente a bagno nella sua culla di liquido amniotico. È come essere in una sala cinematografica o in platea davanti a un palco.

La prima inquadratura (che a me sembra un quadro astratto di un pittore senza talento o una delle macchie del test di Rorschach) fa esclamare al dottore divertito: “Se il buongiorno si vede dal mattino, il padre dovrebbe cominciare a preoccuparsi di questa ragazzina”. Praticamente nella primissima immagine che (solo lui) vede c’è Frida a cosce aperte che piazza i suoi organi genitali in faccia allo spettatore. Io sorrido divertito, questa bambina già mi è simpatica.

Poi la “sceneggiatura” di questo film rallenta, si fa più noiosa. Il dottore mostra i reni (due puntini neri) e altra “roba” importante, ma che per me è un pout-purri di macchie indistinte interessanti come un film russo di tre ore che racconta la storia di un senzatetto che pesca rane e girini. E va avanti per diversi minuti.

Poi improvvisamente dopo un quarto d’ora ho un sussulto di attenzione: si vedono i piedini, le mani e le braccia che lei tiene davanti la faccia e dietro la nuca. Come se si volesse proteggere. E ci credo bene: immaginate voi a letto a riposare tranquilli, quando all'improvviso arriva un occhio gigante che si apre nella stanza e, per giunta, "qualcosa" che vi dà dei colpetti per spingervi a voltarvi da un altro lato così da osservarvi meglio! 

Il clou però si raggiunge quando capita sullo schermo la sua faccia. È il momento di passare al 3D. Frida si rivela. Angela, mia suocera, la trova bellissima e non può trattenersi dal dirlo. Simona sembra visibilmente emozionata. Io la guardo con sconcerto. Certo c’è l’emozione di vederla “per la prima volta” in una immagine più realistica rispetto al fantasmatico ed evanescente bianco&nero delle precedenti ecografie che la facevano somigliare più a una nuvola galleggiante che a un essere umano vero e proprio. Però questa Frida post-embrionale e in formazione vista così non mi fa venire certo in mente l’aggettivo: bella. È  semplicemente il ritratto di quello che deve essere in questo momento: una piccola forma di vita dall’aspetto incompiuto. 

Prima foto di Frida dentro la pancia - 20ma settimana 

Siamo al 22° minuto di ecografia. Dopo questi pochi secondi di emozione si ritorna all’esplorazione noiosissima (ma non discuto l’importanza) con tanto di misure, di fermi immagine e di indagini accurate su forme evanescenti:

Dottore: “guardate qui: questo è il palato superiore
Io mi sforzo di individuarlo, ma non vedo nulla. “Dov’è?
Dottore: “è qui, eccolo… è chiaro non è quello molle, ma il palato duro
Io: “Ah ecco”. 

Penso: ma dov’è ‘sto palato? e poi che significa che è duro? che differenza c’è tra i due? Il mio è “ah ecco” lo pronuncio solo per rompere il mutismo da cui sembro affetto da svariati minuti e per mostrare un interesse che in questo momento è assente, tanto quando il palato molle!

Piano piano quelle immagini liquide, il silenzio della stanza (rotto solo di tanto in tanto dal dottore che fa complimenti a Simona per la sua forma fisica - ne ha viste di “balene spiaggiate” su quel tavolo, donne che con la scusa della gravidanza si rimpinzano fino a diventare Jabba the Hutt di Star Wars [vedi foto]- e per gli addominali troppo sviluppati di mia moglie che non ha smesso un attimo in questi mesi di andare in palestra e camminare per chilometri), la semioscurità da sala cinematografica, la noia delle misurazioni accurate mi precipitano in un sonno avvolgente. Mi addormento sul divanetto. Non è onorevole dirlo, ma è la sacrosanta verità. 

Jabba The Hutt
Dormire all’ecografia morfologica della figlia: c’è qualcosa di degenerato in tutto questo. Comunque Simona se ne accorge e chiede alla madre di colpirmi con una gomitata per farmi destare, ma io ho già gli occhi aperti ed evito il colpo. Sono di nuovo presente anche se sogno di tuffarmi nella placenta accanto a Frida e dormire con lei il sonno dei “non nati”.

P.s. per la cronaca l’esame è andato bene e la piccola continua a crescere. 
P.p.s. il dottore ha pregato Simona di smetterla con gli squat e altri esercizi da palestra se vuole che Frida esca senza penare per superare il muro di muscoli che ha creato nella sua vita di sportiva





sabato 21 marzo 2015

Stanotte ho saputo che c'eri

Ricordo una frase di un libro di straziante bellezza (“Lettera a un bambino mai nato”) in cui Oriana Fallaci scrive: “ Stanotte ho saputo che c'eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d'un tratto, in quel buio, s'è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri”.

Ci ho pensato ieri notte quando in questo letto estraneo, sopra il silenzio orizzontale di Piazza Cavalli a Piacenza, Simona mi ha chiesto: “Si muove Frida, vuoi provare a sentirla?”. Non ha nemmeno finito la frase che la mia mano, come una sonda spaziale in cerca di acqua su Marte, era già sulla superficie liscia, tesa e tonda della sua pancia. 

21ma settimana di gravidanza
21ma settimana - Piacenza

Una pancia che cresce come della pasta che lievita pacifica nel canovaccio durante la notte. Una pancia che è un corpo amplificato, una dilatazione ripiena di mistero. 

Simona guida la mia mano, la tiene come si tiene uno strumento altrimenti goffo e inutilizzabile. La sposta sopra questo “Mondo” di cui ignoro i segnali interni e di cui lei invece conosce tutti i fiumi che scorrono dentro, il paesaggio nascosto, la geografia dei palpiti, i piccoli maremoti vitali. Io sembro un cieco che si muove lungo un muro in cerca di qualcosa che gli indichi la strada. Un appiglio, un'escrescenza, una crepa familiare, un ciuffo d'erba soffice al tatto.

Faccio silenzio, cerco di non respirare, per non confondere il battito del mio cuore dentro la mia mano con un banale (ma quanto importante) calcetto della nostra bimba in costruzione. 

Lei mi chiede: “La senti?”
Io non mento: “No”

Allora lei continua a far muovere la mia sonda-mano sulla crosta morbidissima del pianeta Frida. "Per chi ha paura tutto fruscia", scriveva Seneca. Ma anche per chi desidera. Poi improvvisamente sento sotto la mia mano un colpetto secco e distinto. Quasi mi pare di percepirne anche il suono. Resto silenzioso, non voglio sprecare l’attimo. Simona mi chiede speranzosa se questa volta il “sordo ha sentito” (non dice queste parole, ma è così che mi sento: inabile a "sentire"). La domanda rinforza la mia certezza. Allora quel colpetto era Lei.

Stanotte ho saputo che c’eri. Perché quando la vedo nell’ecografia, a me fa l’effetto di un fantasma lontano, simpatico, ma inesistente. Un’immagine mediata dal video, come quando vedi un luogo che ami in tv e hai solo una vaga emozione, una traccia sbiadita delle sensazioni che quel posto ti ha dato dal vivo. E anche se la ginecologa ti regalo il battito del suo cuore non puoi provare l’esplosione emotiva della sua esistenza, se non sei tu a caricare di significato quel tamburo veloce dal timbro un po’ metallico che forma una frequenza d'onda sinonimo di vita.  

Invece il piccolo attrito del suo corpo minuscolo contro la pelle matura della tua mano è un certificato di esistenza inequivocabile. Un lampo di certezza che ha illuminato la bruna notte piacentina. Ciao Frida, benvenuta nei miei sensi. 


giovedì 19 marzo 2015

La festa del papà, San Giuseppe e i calzini

In mezzo a quell’esercito di sfigati celestiali che sono i Santi (il mio non è un giudizio di valore, ma come definire un enorme gruppo di persone morti: con gli occhi cavati, bruciati sulla graticola, crocifissi a testa in giù, lapidati, trafitti da decine di frecce, decapitati, squartati, lacerati? E quando non erano “benedetti” da queste uccisioni degne di una sceneggiatura di Tarantino, se la passavano piuttosto male tra povertà, privazioni, stimmate e altri doni del Signore), uno mi è particolarmente simpatico: San Giuseppe.

A lui è dedicata la festa di oggi. La terribile FESTA DEL PAPÀ. Quest’anno per me sarà l’ultima vissuta da solo figlio, l’anno prossimo salterò la barricata e diventerò anche festeggiato. Non più solo figlio, ma anche padre.


Povero San Giuseppe, non poteva che essere lui il “Patrono” di una celebrazione così sottotono e arrancante. Lui che si è ritrovato un figlio senza nemmeno aver toccato la propria moglie (e pensa che complesso di inferiorità immane avrà avuto nel sapere che aver messo incinta la sua sposa fu nientemeno che Dio!). Lui che nei racconti evangelici non è nemmeno attore non protagonista, ma poco più che comparsa parlante. Lui che nella capanna del presepio sembra essere il nonno di Gesù, tanto si porta male i suoi anni. Lui che è diventato Santo non perché ha fatto chissà quali miracoli o ha subito chissà quali martiri, ma solo perché ha accettato in silenzio un pargolo non suo (vabbè che si tratta di un “bambinello” speciale, però se questo è il criterio della santità a questo punto quanti santi sono nascosti tra di noi. E molti neppure lo sanno!!)

Comunque il buon San Giuseppe, figura sfocata e ingobbita del trittico della natività, è il perfetto rappresentate della snobbata Festa del papà. Il fatto che nessuno mai se ne ricordi è la metafora stessa della figura paterna che spesso diventa poco più che un orpello silenzioso in quel bellissimo percorso (talvolta a ostacoli) che è la gravidanza. Il padre è quello a cui tutti gli altri chiedono come sta la madre. Il padre è quello che la ginecologa non guarda neanche quando dà le sue indicazioni (a volte mi sento come se fossi il personaggio di Ghost - certo meno bello di Patrick Swayze) o elargisce i suoi sorrisi. Il padre è quello che deve correre a raccogliere le fragole a febbraio sotto una serra per soddisfare la voglia improvvisa della moglie incinta. Il padre è quello che nella grotta-capanna del 25 dicembre fa meno figura rispetto al bue e all’asinello. 

La festa del papà per me è sempre stata la telefonata di mia madre al mattino che mi dice: “ti sei ricordato di fare gli auguri a tuo padre?”. 
E io: “sì, sì… stavo per chiamarlo” (certo, come no). 
E poi mia madre aggiunge sempre: “Guarda che ho preso dei calzini e una maglia intima per papà, da parte vostra”. 

Santa donna! Non ricordo mai un regalo comprato di nostra volontà da parte mia e dei mie fratelli. Quindi in poche parole la festa del papà è la festa del calzino (o per i più chic: della cravatta). È il trionfo di questo regalo tanto utile, quanto squallido nella sua trita ripetitività. 

Allora, se un giorno leggerai questo post Frida, ricordati tre semplici cose:
  1. Se non ti ricorderai della festa del papà non solo non mi offenderò, piuttosto farò un regalo io a te a fine giornata.
  2. Se dovessi sciaguratamente ricordartela (la ricorrenza): evita i calzini (e le cravatte). È meglio se mi pianti un paletto di frassino nel petto, lo trovo meno avvilente.
  3. Se volessi lottare per qualcosa di poco importante, ma divertente nella vita: combatti per l’abolizione di questa festa e di tutte quelle che celebrano per un sol giorno chi dovrebbe  invece essere ricordato a prescindere (e quindi accomuno anche festa degli innamorati, della donna, e della mamma - che nella hit parade delle feste va proprio forte).
Buona Festa del Calzino… pardon.. del Papà a tutti!

lunedì 16 marzo 2015

La scuola italiana fa male - parte 1

Se qualcuno adesso mi chiedesse: cosa ti spaventa di più del diventare padre, io risponderei: mandare mia figlia a scuola

La scuola italiana mi fa ribrezzo. Credo sia il male più oscuro e radicato del nostro Paese. Non un tumore qualsiasi, ma una metastasi piazzata nel bel mezzo del petto italiano. Faccio una premessa, così non devo rispondere a chi mi dirà: “ci sono tanti bravi insegnati nella scuola italiana”. La mia premessa è questa: si ci sono è vero! alcuni li ho trovati sulla mia strada e sono grato a loro, alcuni sono miei amici che stimo, alcuni si fanno il culo (scusate l’eleganza) perché l’insegnamento non sia una parola vana per giustificare uno stipendio piuttosto penoso. Ma sono alcuni, appunto.



Quando dico che la scuola italiana fa male ho diversi motivi per dirlo. Cominciando dalle strutture che la ospitano. Per il mio lavoro al festival di Giffoni sono costretto a entrare in tanti edifici scolastici e ogni volta è come varcare le soglie dell’inferno. L’inferno della bruttezza e della disperazione. E questo vale in special modo in questo Sud stanco e polveroso, che puzza di antico e di svogliatezza (impressionato molto, invece, da un paio di scuole che ho visitato nelle Marche). Le scuole sono luoghi orrendi dove non c’è una traccia di buon gusto, non c’è un’idea di arredamento o architettura, non c’è la minima concessione alla natura e nessun riguardo per la bellezza che dovrebbe, invece, nutrire gli occhi e la mente dei bambini, dei ragazzi, dei giovani.

Chi quotidianamente è esposto alla bellezza non può non sviluppare un sacrosanto disgusto per il brutto e anche, di conseguenza, per il “cattivo”. Le azioni peggiori fermentano nel brodo della bruttezza. La mente si impoverisce quando un bambino entra in un edificio in cui il colore delle pareti è giallo “feci tubercolotiche” o azzurrino pallido da “reparto di chirurgia generale”. Le crepe nei muri diventano fessure che minano la stabilità estetica di un bambino. E i bagni? Dio mio i bagni delle scuole! Antri maleodoranti e abbandonati a loro stessi, da fare invidia ai “peggior bar di Caracas” (per citare una pubblicità di qualche tempo fa). Luoghi "sconsacrati" e senza controllo dove proliferano forme di vita primordiali, che si pensavano estinte. Ho visto, invece, bagni nelle scuole all’estero dove avrei campeggiato allegramente, per il lindore e la cura che li contraddistingue. 
IPSIA di Lamezia Terme - novembre 2014

Ho visitato una volta la scuola elementare Pajol a Parigi e l'idea alla base di questo edificio è: "Tutto, dagli arredamenti, alle pareti interne, al variopinto cortile, ha preso parte a rendere gioioso lo spazio in cui i bambini si trovano inseriti". Sono stato nelle scuole in Svezia,  in Germania, a Miami, a Doha (autentiche perle, credetemi), in Australia: non ho trovato niente di paragonabile alla deprimente situazione del nostro Paese. 


Ecole Maternelle Pajol, situata in Rue Pajo nel 18 ° Arrondissement di Parigi

Ora un po’ di dati: il 57% delle scuole non ha il certificato di idoneità statica, fuorilegge il 28% degli edifici, distacchi di intonaco (rilevati nel 22% delle classi), la presenza di altri segni di fatiscenza (30%), le finestre rotte (28%), l'assenza di tapparelle o persiane (58%), i pavimenti sconnessi (24%), banchi e sedie rotte (rispettivamente nel 17% e nel 23% dei casi), la presenza di barriere architettoniche (11%), oltre 66mila studenti “stanno stretti”, anche le palestre, dove ci sono (visto che il 35% degli istituti monitorati non ce l'ha) sono posti bestiali: fatiscenti (22%), mancanza della cassetta di pronto soccorso (22%), distacchi di intonaco (17%), attrezzature danneggiate o altre fonti di pericolo (16%) - insomma fare educazione fisica è più pericoloso che prepararsi alla jihad in un avamposto pakistano! 

Molti risponderanno: sì ma è colpa anche degli studenti e dei loro atti vandalici. Conoscete la cosiddetta TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE di James Q. Wilson e George L. Kelling? Questa fu la tesi sociologica alla base della svolta eccezionale che Rudolph Giuliani diede a una New York ormai crollante all’inizio degli anni ’90 (l'operazione da cui ebbe il via la Tolleranza zero, consisteva semplicemente nel far pagare il biglietto ai viaggiatori. Questo bastò a cancellare l'idea che la metropolitana fosse una zona abbandonata e senza regole, producendo un crollo delle attività criminali). 

Con l'espressione teoria delle finestre rotte si indica quella teoria sociologica secondo cui investendo le risorse, umane e finanziarie, nella cura dell'esistente e nel rispetto della civile convivenza si ottengono risultati migliori rispetto all'uso di misure repressive. Al contrario, trascurando l'ambiente urbano, si trasmettono segnali di deterioramento, di disinteresse e di noncuranza. Ad esempio l'esistenza di una finestra rotta (a cui il nome della teoria) potrebbe generare fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere un lampione o un idrante, dando così inizio a una spirale di degrado urbano e sociale”. Ecco spiegato gli atti vandalici che, se riflettete per un attimo, avvengono non in contesti di scuole pulite, ordinate, ben tenute, ma in posti già profondamente minati dal cancro della sciatteria. 

Io odio la scuola italiana, con tutto me stesso. Con ferocia, con schiuma alla bocca, odio amplificato con un sentimento di profondo sconforto. Il pensiero di rinchiudere Frida dentro questi monumenti cariati alla devastazione di un Paese malato (e al Meridione, sicuramente incurabile) mi fa accapponare la pelle. Allora se qualcuno mi chiedesse: di cosa hai paura per Frida, io risponderei: della scuola!


FINE PRIMA PUNTATA  - c’è ancora da dire sulla situazione degli insegnanti e sui metodi di insegnamento. Lo farò nelle prossimi pezzi. E li farò "a pezzi".

venerdì 13 marzo 2015

10 motivi per cui è meglio una femmina

Aeroporto di Goteborg. Si torna a casa. Inganno il tempo (ammesso che Lui si lasci beffare. E comunque, alla fine, vincerà il Tempo su di noi, inesorabile e spietato) leggendo un buon libro e per distrarre lo sguardo dalla varia umanità zombesca che affolla i gate dei vari voli.
Zombie perché noi che aspettiamo siamo in una zona d’ombra, non vivi e non morti. Sospesi. Non impieghiamo i minuti e le ore, ma semplicemente lasciamo che passino. Una specie di Purgatorio in cui un Dio oculato ha affittato gli spazi ad ogni genere di attività commerciale. E come è più dolce l’attesa del Paradiso spendendo soldi a comprare Toblerone o bottigliette d’acqua che costano più di una tanica di benzina.  


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Devo distrarmi dalla folla di persone, perché altrimenti non riesco a non pensare alla parola “sovrappopolazione”. E mentre considero il fatto che presto contribuirò a rimpolpare quell’agglomerato virale dannoso, chiassoso e noioso che per convenzione chiamiamo “umanità” mi arriva un messaggio di WhatsApp da Simona che mi comunica che ha fatto un’altra ecografia e per la ginecologa al 90% sarà femmina.
FERMI TUTTI. Che i neuroni non si muovano. che le sinapsi si stacchino. che la corteccia cerebrale vada in standby. FEMMINA! Il sogno si avvera. Anche se il primo pensiero mi dice: 90% femmina? quindi c’è un 10% di maschio dentro di lei? quindi è una sorta di ermafrodito che nasconde dietro il 90% di una piccola vagina delicata l’urlo di un piccolo pene al 10% della sua estensione? quindi al 90% di pura intelligenza devo aggiungere un 10% di sana idiozia da essere primitivo?
Sono abituato ad avere a che fare con il mio PRIMO PENSIERO. È sempre il parto malato di una mente in debito d’ossigeno. Passiamo al secondo pensiero, quello più sano. È un pensiero felice che ha però una titubanza: si può gioire al novanta per cento? Il tizio a cui il medico dice: “ha il 90% di sopravvivere”  ha voglia di esultare o piuttosto si caga sotto perché sa che la Sfiga riesce a fare grandi cose con quel misero dieci su cento?
Ma io voglio essere positivo. Anche perché dal primo istante che ho saputo di diventare padre ho avuto un chiodo fisso: SPERIAMO CHE SIA FEMMINA! Se avessi saputo come pregare lo avrei fatto per avere una gentil donzella dentro la pancia di Simona. Se avessi potuto corrompere chiunque e chiedere raccomandazioni e prostituirmi per avere una “figlia” piuttosto che un figlio lo avrei fatto. Se fosse esistita una formula magica o un rito scaramantico per assicurarmi una femmina come figlio sarei regredito socialmente per raggiungere lo scopo. Mi sarei venduto un arto per una baby girl (ammesso che a qualcuno interessi comprare un arto. che ci fai con un braccio, mediamente muscoloso?) 
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E da buon amante delle liste ecco i 10 motivi per cui speravo con tutto me stesso (e anche parte di altri) che fosse femmina (nel prossimo pezzo del blog scriverò i motivi per cui non avrei mai voluto un maschietto!)
1. Perché avevo nella mia mente il nome FRIDA da sempre e dovevo usarlo  prima o poi. E a un maschio sarebbe stato difficile affibbiarlo. Una volta avevo pensato di assegnarlo a una mia tartaruga, ma l’ho riservavo (e ho fatto bene) a “qualcosa” di più importante
2. Perché le femmine non hanno paura della parte femminile che è in loro!
3. Perché le femmine hanno le emozioni a fior di pelle ed è bellissimo incrociare  le tue con le loro
4. Perché le femmine non si strozzano con il cordone ombelicale che tiene legati i maschi alle mamme per anni e anni e anni e anni dopo che sono usciti dal loro ventre
5. Perché le femmine, almeno la maggior parte, non si rincoglioniscono davanti alle partite di calcio e la domenica non si trasformano in amebe fluttuanti (e pantofolanti) su divani in cui fare la forma. 
6. Perché alla femmine non piacciono i supereroi. a me annoiano tutti, tranne Batman
7. Perché quando una femmina ha capito come risolvere un problema un maschio si sta ancora chiedendo “scusa ma dov’è il problema?”
8. Perché la donna è il futuro dell’uomo
9. Perché la femmina sta all’uomo come l’Homo Sapiens sta all’Homo Neanderthalensis
10. Perché la femmina contiene in sé la Vita, il maschio spesso (e la Storia insegna) è un alleato affidabile della Morte.

lunedì 9 marzo 2015

Perché "Non chiamarmi papà"

Ho sempre avuto una decisa avversione per i “titoli familiari”: nonno, suocero, zio e perfino mamma e papà. Io ho un desiderio: che mia figlia non mi chiami mai papà!
È una mia idiosincrasia (apro una parentesi, e ve ne sarete accorti, su questa parola bellissima. Tutti noi sappiamo, o faccio finta di sapere, che significa “profonda avversione” o antipatia verso qualcosa o qualcuno. Però la sua origine greca rivela un senso più profondo: idios  sta per “proprio” e di synkrasis  per “carattere” o “inclinazione spirituale”. Come a dire che certe repulsioni e certe ostilità che sembrano immotivate, sono spesso solo da attribuire al nostro carattere, cioè a “come siamo fatti”). 
“Nonno e nonna” sono titoli che per me sanno immediatamente di stantio. Di qualcosa che improvvisamente si ricopre di ragnatele, di passo un po’ infermo, di racconti che nessuno vuole ascoltare, di pantofole che strusciano sul pavimento, di profumo stantio, di vestiti desueti e cadenti, di borbottii lamentosi, di posti lasciati vacanti in autobus per farti sedere.
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Certo lo so benissimo che sono immagini stereotipate di nonni da film o di nonni ormai decaduti, ma le parole portano con loro sempre un’immagine che si forma nella  nostra mente. Per questo quando una donna o un uomo ancora giovani o giovanili vengono investiti da questo terribile peso (diventare nonni) li sento improvvisamente invecchiati, come povere vittime di un incantesimo di una strega rompicoglioni. Per questo il giorno in cui qualcuno mi chiamerà nonno, sentirò calare su di me il sipario della vita.
“Zio e zia” mi procurano una vertigine di cattivo sapore ancora più intenso. Nel corso del tempo ho provato ad eliminare quasi del tutto questa abitudine malsana di dare dello “zio” a chi ne ha diritto. L’etimologia lo fa risalire alla parola greca “theios” che significa divino e quindi legato al concetto di rispetto verso il fratello (o una sorella) del genitore. Io col divino ho un rapporto incerto e per quanto riguarda il rispetto verso un ruolo, beh ho un rapporto ancora più difficile. Per me le persone vanno trattate per quelle che sono, non per essere il “fratello di”, “cugina di”, “figlio di” (riempire quest’ultima locuzione a piacere). Poi da quando i rapper hanno adottato la parola “zio” come saluto all’altro, credo si sia raggiunto il capolinea del significato.
Potrei continuare, ma mi fermo qui, per tornare all’inizio. Non voglio essere chiamato Papà. È come se fossi privato della mia identità di Manlio. io ci sto bene dentro il mio nome, sembra tagliato su misura sulle mie spalle e sul mio carattere (e sulle mie idiosincrasie). Papà mi fa perdere i capelli e mi fa cadere su un divano. Papà mi fa sentire in bocca il gusto amaro di una tradizione da perpetrare. In poche parole essere chiamato papà mi fa sentire come se dovessi rinunciare alla agilità del mio nome “speciale” per abbandonarmi al dispiacere dell’essere comune (non a caso è un nome COMUNE di persona).
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E poi pensateci: è una parola troppo facile. Pa pa pa pa. È la lallazione primaria dell’infante. Che fantasia… scegliere i primi suoni che emette il mini-uomo o la mini-donna come nome da affibbiare per una intera vita a un genitore. Diamo un po’ di stimolo a questi bambini, abituiamoli alla diversità!
Qualcuno, pensando di aver capito il problema, mi dice: “fatti chiamare Babbo, allora”. È peggio credetemi. Babbo mi fa crescere la barba e venir la voglia di mettermi una pipa in bocca. Babbo mi fa sentire un “buon uomo” e non immaginate quanto disagio mi inietti nel cervello un’idea del genere. No Babbo no. Scartato.
A dire papà, babbo e mamma son buoni tutti, anche il più rincoglionito dei marmocchi. Io vorrei qualcosa di più, io vorrei che fosse lei, mia figlia, a decidere come chiamarmi. E poi io non la chiamerò mica FIGLIA, io la chiamerò per nome, le riconoscerò la sua identità. Da subito. Par condicio, please.
Io  vorrei essere chiamato semplicemente Manlio. O Kappa come mi chiamano alcuni miei amici (la storia del mio vecchio soprannome è lunga e ha a che fare con una K tatuata sul mio braccio e con Kafka che ho sempre amato). O come diavolo le verrà in mente di chiamarmi. Ma essere un “papà” in mezzo a tanti papà tutti uguali (di nome almeno) proprio non mi va giù.
Scena: davanti scuola, lei esce e comincia a chiamare papà. E il suo è un suon simile in mezzo ai tanti e le tante che chiamano papà. Un’orgia di nomi tutti uguali, un baccano unisono, una confusione in cui le identità si sono fuse in un unico bolo semantico.
E allora, ti scongiuro Frida, non chiamarmi papà. Anche se ti diranno che così l’autorità viene meno. Anche se le mamme sui forum inorridiscono davanti a questa eventualità (ecco cosa scrive una di queste madri isteriche: “quella di chiamare i genitori per nome è una fase che molti bambini attraversano, spontaneamente. Il mio mi ha sempre chiamato mamma, suo padre lo chiama papà,ma ogni tanto per nome. Poi passa”. POI PASSA??? ah quindi è una malattia della crescita, buono a sapersi). 
Per concludere: diffidate dei  i “forum delle mamme” e combatteteli, sono più pericolosi e deliranti di quelli degli jihadisti!

venerdì 6 marzo 2015

I 5 tipi di reazione al tuo annuncio di avere un figlio

Il mio nuovo hobby in questo periodo è “annunciare agli altri che diventerò presto padre”. È un passatempo estremamente divertente e capace di illuminarmi ancora una volta sulle tipologie umane e sulle, sempre meno, sorprendenti dinamiche umane.
Ecco a voi i 5 tipi di persone che reagiscono alla tua imminente genitorialità:
GLI ESISTENZIALISTI: li riconosci dal sorriso angelico che si dipinge sulle loro facce alla notizia e quella strana luce che sembra improvvisamente circonfondere la loro testa. È come se improvvisamente fossero stati toccati dalla luce divina. Le frasi tipiche sono: “I figli sono la gioia più grande”; “Non potevi darmi una notizia più bella”; “ora finalmente hai trovato un senso alla tua vita” (come se avessi speso i miei primi 41 anni di vita a cazzeggiare o a contare le nuvole sopra la mia testa con un filo d’erba in bocca). Agli esistenzialisti io di solito rispondo con un sorriso o accondiscendendo alle loro parole. mai contraddire un santo



GLI URLATORI: sono quelli che alla notizia gridano e da quel momento in poi durante la conversazione avranno sempre un tono di un’ottava sopra la loro media abituale. Cominciano con “Nooooo davvero???” (io gli risponderei: no stavo scherzando, era solo per farmi bucare i timpani che te l’ho detto). Poi vanno avanti con “Non ci posso credere” (non ti ho mica detto che ho scoperto dove si trova il Sacro Graal o di aver svelato il mistero dell’Isola di Pasqua). E continuano a gridare cose del genere: “Bellissimoooo. Sono troppo contenta (si di solito sono donne) per voi”. Non si curano di chi è intorno, di dove ti trovi, del concetto di discrezione. All’urlatore di solito reagisco abbassando il tono delle mie parole, come se volessi equilibrare questa alterazione comunicativa. Oppure cerco di tagliare subito facendo sfoggio di cinismo e sana disillusione, per smorzarne l’entusiasmo che deraglia presto verso la pura follia.


I PROFETI DI SVENTURA: sono genitori da poco, ma non abbastanza poco da essere ancora incoscienti. Sono quei tipi il cui figlio/a non arriva all’anno di età. Li vedi scavati in volto e con l’atteggiamento di chi è appena uscito da un campo di prigionia. Ti guardano con occhi mesti, ma penetranti. Con l’espressione di chi la sa lunga e il sorriso alla Joker che è segno di sventura. Ti dice: “Ah auguri! (detto col tono di “condoglianze”) Ora vedi come ti la cambia la vita”. Qui io già vorrei scappare via o chiamare la polizia. Ma questo è solo l’inizio. “Riposa adesso, che poi quando nasce non si dorme più”. Io rispondo di solito che non amo dormire e non mi peserà. Questa cosa un po’ li disorienta. “Ah bene, ma vedrai quando cominciano a piangere e non la smettono più”. Cerco di buttarla sull’ironia dicendo che ho pensato di foderare la mia stanza con isolanti acustici e di aver fatto scorta di tappi per le orecchie. E qui sferranno l’attacco finale: “ Poi cominciano le colichette…” qui fanno una pausa grave carica di nefaste premonizioni. Ho come l’impressione che cali il buio, che i corvi si accalchino sui rami fuori, che risuoni nell’aria una nota musicale profonda e infinita.


I COMMISSARI DI POLIZIA: non sono semplicemente curiosi e contenti, ma sembra che stiano svolgendo un’indagine e tu sia l’indagato principale. Le loro sono domande a raffica da cui ne esci stordito, e il più delle volte colpevole. Iniziano con la domanda di rito fatidica: “Di quanti mesi è?”. Qui io già vado in confusione, come un delinquente dall’alibi imperfetto. Il fatto è che non ricordo mai come si calcolano queste maledette settimane e come diventano mesi. Il tempo della gravidanza sovverte il calendario classico e tutto diventa più complesso, informe e aleatorio. Grazie a svariate app che ho scaricato quasi sempre riesco a rispondere almeno in settimane (anche se su alcune di queste escono dei simboli tipo 18w4d che mi fanno sentire come se mi trovassi improvvisamente dentro The IMitation Game e dovessi decodificare un codice di guerra. per la cronaca 18w4d significa 18 settimane e 4 giorni). Ma la tipologia commissario non si accontenta. “Si, ma in mesi quanto è?”. È lì a fare calcoli. Poi comincia la raffica “Che sesso è? Quando nasce? Parto naturale? Che clinica? Chi è il tuo ginecolgo? E tu volevi la femmina? E Simona? Avete già scelto il nome? Ah bello, ma perché questo nome? E ai tuoi piace? E ai suoceri? Contenti che sia femmina loro? Avete già preso la culla? Il trasportino (ah no quello è per i cani, per gli esseri umani si chiama passeggino…)? Avete preso il fasciatoio? Il fasciatoio è fondamentale! La cameretta di che colore è? Ma dormirà da solo o nel lettone?”. È non ti molla fino a quando non sei così esausto che confessi: “Sì l’assassino sono io!”



GLI SCETTICI: sono quelli che sembrano sappiano tutto di te,  anzi ti conoscono meglio di te stesso. Sono coloro i quali alla notizia che diventerai una padre, corrucciano la fronte e domandano “Ma tu  non sei quello che non voleva figli?”. Mi sento in trappola, mi hanno scoperto. Quindi ora per coerenza dovrei interrompere la gravidanza di mia moglie? Sono quelli che ti dicono: “Ahahaha ora già ti vedo con un passeggino in mano. Tu impazzirai per lei, ti conosco troppo bene”. E cominciano a delineare con una precisione da biografo quello che farai e quello che non farai e non crederanno a niente che non si sposi con questo ritratto che hanno preparato. Loro ti dicono : “Vedrai quando si fa teenager e ti portano il primo fidanzato a casa”. Io: “E vabbè, che c’è di male… sarò felice di conoscerlo”. Loro: “Ahahhaa (ridono sempre gli scettici, come se la risata fosse un colpo di  mitra alla tua credibilità”) se se poi vedi come sei contento. Come se non ti conoscessi!”. Lo scettico non lo convincerai mai, nemmeno con l’evidenza dei fatti. Quindi meglio assecondarlo. Tanto è innocuo.

domenica 1 marzo 2015

Caldi notti di Doha - Il concepimento

Un passo indietro rispetto all’annuncio della gravidanza. 6 Novembre 2014.
Quando Simona arriva a Doha io sono al colmo della gioia. Lavoro in Qatar già da oltre un mese. Da poco è cominciato l’autunno “arabo”, quindi il caldo è diventato sopportabile (ma mai si scende sotto i 30° di sera), molto meno l’assenza di mia moglie. 
Prima del suo arrivo aiutavamo a vincere la distanza e la mancanza grazie alle moderne tecnologia. Skype su tutti. Sicuramente è utilissimo (anzi indispensabile per le relazioni a distanza), ma per quanto tu possa sforzarti di apparire decente nelle “videochiamate” (un termine che mi ricorda subito un’altra epoca, roba da Pippo Baudo e Mike Bongiorno) finisci sempre per somigliare: o a un rospo appena schiacciato da uno pneumatico di una Jeep o a una gallina in brodo. Non c’è nulla da fare, Skype va bene per le chiamate di lavoro, ma per la preservazione del fascino è utile come l’alito per riscaldarsi se resti immobilizzato in una tenda sull’Everest. 
 Torniamo a noi. Dopo un mese di lontananza, l’arrivo di Simona nel bellissimo hotel Kempiski viene salutato dal mio cuore con balzi di gioia e dal mio corpo con una una sensazione come di  ”rifiorimento” (vedi immagine sotto)
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La prima notte nel nostro letto con vista sullo skyline di Doha comincia con questo dialogo. M sono io, S è Simona, of course.
S: “vedi che ho interrotto la pillola”
M: ” Ah”
S: “Eh si sono 10 anni che la prendo di continuo, una interruzione serviva, ne ho approfittato che eri fuori”
M. “Ah”
S: “si stiamo attenti, ma tranquillo… il mio ginecologo mi ha detto che dopo l’interruzione ci vogliono mesi prima di ritrovare la fertilità. Forse addirittura un anno”
M: “Ah”
Finito il dialogo, comincia l’azione. E su questo calo il sipario del racconto, lasciando a te indomito e fantasioso lettore immaginare gli accadimenti che ci hanno portato al punto in cui siamo.
Ora alcune considerazioni:
1. È tanto vero che la pillola anticoncezionale presa in maniera prolungata possa atrofizzare o comunque indebolire la capacità di procreare, quanto la credenza che praticare l’autoerotismo porti alla cecità. Per inciso: abbiamo cambiato ginecologo.
2. La nostra piccola “Frida” (questo il nome della bambina frutto di quella notte di passione esotica) nasce con il marchio di chi si è attaccata alla vita con tutta se stessa: se avesse dovuto attendere la nostra voglia di procreazione forse sarebbe invecchiata ancor prima di venire al Mondo. Una Benjamin Button versione femminile per intenderci. 
3. Aver concepito a Doha ci darà occasione di costruire in futuro per lei tutta la mitologia della sua nascita. Vuoi mettere essere procreata in Qatar, piuttosto che a Pontecagnano o a Giffoni?!
4. Come mi ha suggerito il mio amico Aurelio, un po’ di tempo fa il governo danese ha inaugurato la campagna “Fallo per la Danimarca!”  per incrementare le nascite, pericolosamente basse da quelle parti. Nello spot per lanciare la campagna si citano le statistiche secondo cui il 10% di danesi sarebbero stati concepiti all’estero, e che il 46% delle coppie fa più sesso mentre è in vacanza.
Noi di nostro abbiamo contribuito a innalzare le statistiche italiane. Io l’ho fatto per l’Italia!
P.s. la campagna danese prevede una serie di sconti per chi prenota le ferie durante il periodo dell’ovulazione. Una volta incinta, se si manda la prova dello stato interessante si può partecipare a un concorso per vincere una serie diprodotti per l’infanzia. L’iniziativa è aperta anche alle coppie gay e a quelle sterili perché, come recita la pubblicità, “l’importante è partecipare”